Mai più “concorso di colpa” per le vittime di stupro. La Corte Europea condanna i giudici italiani.
A Strasburgo la Corte Suprema dei Diritti Umani esorta a considerare le vittime come tali, rispettandone la dignità ed esortando a condanne più severe per i carnefici
Mai più “concorso di colpa” per le vittime di stupro. La Corte Europea condanna i giudici italiani

La Corte Suprema dei Diritti Umani a Strasburgo sanziona e riprende pesantemente i giudici italiani e la loro tendenza implicita di rendere corresponsabili le vittime di violenza carnale della nostra giustizia.
Un’abitudine, quest a, presente tanto nei processi, quanto sfortunatamente anche nella cultura di massa. In breve, un’idea che è diventata in qualche modo la scelta che meglio si confà per i predatori, ossia gli stupratori che, spesso utilizzando droghe e sostanze stupefacenti, si sentono -o si sentivano- almeno fino a questa rivoluzionaria (e già questo basterebbe a farci vergognare di fronte a un principio a monte tanto discutibile ed esteso) “tutelati” dalle frequenti messe in discussione della moralità delle loro vittime.
Troppe volte le frasi “aveva bevuto”, “era vestita in modalità procace”, “era solita uscire con più persone” sono state pronunciate, e non solo da individui comuni, bensì da personaggi più in vista.
Come se questi fattori inneggiassero o esplicitassero un consenso verso rapporti non desiderati.
La sentenza che bacchetta i giudici italiani è arrivata, seppur ormai quasi insperata da parte della vittima, dopo anni. Quest’ultima si era trovata coinvolta in un ricorso per un processo in Corte d’Appello a Firenze, con i ben 7 giovani imputati scagionati con piena assoluzione nel 2015 perché, secondo i giudici, all’epoca dell’episodio, risalente al luglio 2008, il fatto non sussisteva. La spiegazione di questa scelta scellerata fu che la ragazza, allora poco più che ventiduenne, sarebbe stata definita dagli stessi magistrati troppo “disinibita nei comportamenti”, evidenziando come questa avesse, a detta del gruppo, “esibito anche il proprio intimo di colore rosso a cavallo di un toro meccanico”.
La donna aveva sporto denuncia di gruppo contro sette giovani fra i 20 e i 25 anni, dopo quattro giorni dalla violenza, avvenuta in auto nei pressi della Fortezza da Basso (FI), durante una sera d’estate. Tabulati telefonici contraddittori, geolocalizzazioni a difesa, accertamenti clinici in supporto alla tesi della giovane, finiti con un solo mese di arresti e domiciliari.
Ma, se in primo grado, sei dei denunciati erano stati condannati alla reclusione (dai sei mesi a quattro anni) con tanto di aggravante per lo stato mentale e pure psicofisico alterato dall’alcol della ragazza, la suddetta Corte d’Appello fiorentina aveva ribaltato l’intera imputazione per insussistenza del fatto, come già detto in precedenza, asserendo si trattasse di totale inattendibilità nel racconto della donna.
La procura generale del Comune di Firenze, costituitosi come parte civile, rinunciò al ricorso in Cassazione; pertanto i carnefici della violenza rimasero a piede libero.
Questo episodio ha suscitato, già allora, indignazione a livello internazionale per le parole e gli epiteti utilizzati dalla difesa in riferimento alla donna abusata, con contenuti espliciti e denigratori, ulteriormente riprovevoli se pronunciati da un magistrato, quali «soggetto femminile disinibito, creativo, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, oltre ad avere rapporti occasionali di cui, nel contempo, non era convinta».
La stessa giovane, in uno sfogo amaro sul suo blog “Abbatto i muri” chiese se la sua sarebbe stata una storia più credibile se fosse finita in tragedia, con la sua morte.
Lo racconta non senza sottolineare la destabilizzazione psicofisica, i tentativi di suicidio, la ricerca del ritorno ad una vita normale, dopo un tale dramma personale, susseguito da ben 19 ore di interrogatorio e frasi di scortesia basate sulla biancheria indossata, e le tristi, nonché note, descritte come “incresciose” vicende giuridiche. Non paga di ciò, non sono mancati pregiudizi di carattere sessista e frasi come “ci hanno assolti perché ha mentito su di noi”, “non ho mai fatto niente di male”. Queste le esclamazioni a difesa di uno di loro, Leonardo Victorion. Ma non sono che solo alcune esternazioni dei sedicenti uomini retti e virtuosi.
La Corte Europea, pur non potendo ormai ribaltare la sentenza, ha obiettato e condannato i giudici italiani (in quanto rappresentanti dello Stato) a risarcire la donna con una somma simbolica (visto il travagliato iter impunito) pari a 12 mila euro e 1600 euro aggiuntive, per spese processuali e accessorie, con la motivazione dei danni morali. La Corte, spiega l’avvocato della difesa della donna, Titti Carrano, ha punito la sovraesposizione mediatica del fatto, raccontandolo in maniera erronea, calpestando immagine, riservatezza e dignità della vittima stessa.
Fra i giudici votanti, solo il polacco Wojtyczek. non si è espresso a favore della condanna per la magistratura italiana (anche il nostrano Raffaele Sabato, mortificato dal comportamento dei colleghi, è stato ben felice di esprimersi contrariato), che non solo non ha tutelato i diritti della vittima né i suoi interessi, ma ha avviato una politica involontaria di vittimizzazione secondaria.
La teoria del “se l’è andata a cercare”, finalmente, trova un pregresso a cui appigliarsi per giungere alla fine.
Una donna -in qualità di persona- ha il diritto di esprimersi a proprio piacimento, truccandosi, acconciandosi, agghindandosi e vestendosi in piena libertà. E questo vale anche se a qualcuno può apparire troppo azzardato sensuale. Una donna, una persona, persino, può arrivare a trovarsi, per sua libera scelta, a un contatto ravvicinato con un’altra persona. Ma è, allo stesso modo, suo sacrosanto diritto, fermarsi, cambiare idea e dire un “no” che deve, perentoriamente, essere ascoltato, e rispettato.
Senza alcun giudizio per le posizioni sulla singola persona.
E, una volta tanto, coloro che subiscono, “vanno a cercarsi” solamente l’indipendenza e la deferenza dovuta nel non essere più vittime del giogo altrui. E se così dovessero, loro malgrado, diventarlo, è altresì essenziale che queste vittime trovino qualcuno disposto a proteggerle.
Non bistrattate, dunque: bensì tutelate.
Come Corte Europea dei Diritti Umani impone.
Forse, la rivoluzione del concetto, nonché l’elevazione del diritto alla persona di fare ciò che si sente di fare, nel rispetto dell’altro, lo ribadiamo, è iniziata.
Dopo ben tredici anni da un episodio doloroso, avvilente e umiliante per una vita segnata, a scapito di altre, proseguite come se nulla fosse. Come a dire che la vergogna la prova troppo, e troppo spesso, chi non dovrebbe, e chi merita pubblica onta, resta senza troppi gravami etici e morali. Questo poiché supportato, ignobilmente, da una legge e da un cultura sbagliata che si trascina in un costante sfaldamento e schieramento sui social media.
Con questa rivoluzione, tuttavia, qualcosa pare cambiare.
O, almeno, dopotutto, in parte, pare iniziata.
Come dire: meglio tardi che mai!
A cura di Veronica Fino
Fonti: Ansa, La Stampa, La Nazione, Il Post
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