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Il lato oscuro della DAD: abbandono delle lezioni, lacune e cibo ridotto per molti studenti



La Didattica a Distanza, ormai nota con il suo acronimo “DAD”, rischia di diventare, secondo le parole di Andrea Gavosto, Direttore della Fondazione Agnelli, «il più grande disastro pedagogico del dopoguerra».

In Italia, così come in molti altri Stati Europei, l’insegnamento scolastico non in presenza ha creato e continua a creare disagi per tutte le figure coinvolte: per gli insegnanti, che faticano spesso a fare lezione per scarsità di linea, assenza di un proprio locale domestico adibito a studio da dove trasmettere (coloro che abitano distanti dalle proprie aule si connettono dalle proprie abitazioni) e ardua gestione in toto degli alunni, talora disattenti o disturbatori, a seconda dello schermo in loro possesso; per le famiglie, che alternano lavoro a domicilio, difficilmente rendendosi disponibili ad assistere i figli, e soprattutto per questi ultimi, ovvero, gli studenti. In assenza di dispositivi elettronici per ogni componente del nucleo famigliare, come necessario per questo tipo di attività didattica e lavorativa, molti studenti sono costretti a seguire le lezioni dallo smartphone di uno dei genitori, affaticando la vista per la limitata grandezza dello schermo, problema che si somma alle difficoltà delle caratteristiche d’uso proprie di un telefono, che in qualsiasi momento può suonare, ricevere sms e altre notifiche varie, con una prevedibile perdita dell’attenzione.

Sono altresì inevitabili una serie di fattori peggiorativi come crescente distrazione, difficoltà di concentrazione, e limitata capacità di apprendimento, che, secondo molti sociologi, porteranno conseguenze drammatiche sullo sviluppo cognitivo-comportamentale (riluttanza all’attenzione in un’aula intesa come spazio reale, senza creare disturbo, una volta rientratici), e non mancherà, infine, un senso di inadeguatezza nel chiedere delucidazioni di ciò che non si è compreso.

Ciò accade soprattutto perché, nel momento di lavoro dei genitori, i figli spesso non hanno modo di confrontarsi con loro e quell’involontario lasciarli nel dubbio non giova e mette, anzi, in loro, remore nel porre domande. Inoltre, vi sono famiglie con scarsi mezzi educativi, e questo comporta un’ulteriore alienazione per i ragazzi e la loro autogestione dello studio. Solo in Italia, prima della pandemia, l’Istat riportava che nel 2019 i ragazzi dai 6 ai 17 anni viveva in famiglie senza disponibilità di connessioni internet in numero pari al 7,5% al Nord e al 19% al Sud; e il numero di dispositivi come tablet e pc acquistati, molti dei quali donati alle scuole da enti privati, non sembra sufficiente. Da alcuni dati riportati dagli insegnanti, alcuni ragazzi non trovano legittimo conforto nella famiglia, che “pare essere stanca della forzatura nel medesimo spazio e trova condivisione di intenti e diletti con i figli duettando in balletti su Tik Tok, appoggiandoli nelle “challenges” virali [...] come se prima i ragazzi fossero competenza regolare di tutte le sottostrutture famigliari, dalla scuola alle attività ludico-sportive che riempivano le loro giornate binariamente, limitando il loro compito di primi veri educatori e la loro presenza alle sole (poche) ore serali”. Parole forti, impattanti, di un’insegnante di una scuola media paritaria della Milano bene. Che esortano a

un’altra riflessione: povertà di attitudini genitoriali di un’intera generazione o povertà di tempo per mostrare le proprie attitudini?!

Noi ci esuliamo dalla risposta, per spostarci in un’altra drammatica conseguenza della pandemia e della scuola a distanza: fra oltre 40.000 istituti scolastici, solo poco più di 1/4 dispone di mensa interna, e dai dati emersi, si denuncia che nel solo secondo semestre del 2020 sono stati più di 160.000 i bambini a non avere potuto disporre di un pasto completo a seguito dell’assenza delle mense, conseguenza della crescente povertà e delle difficoltà di mettere in tavola del cibo cucinato, fresco, sano e bilanciato, con l’aggiunta inevitabile quanto puerile vergogna dei genitori in crisi. Si parla perciò, di fame, crescente, anche nei “nostri” Paesi Occidentali, quelli sviluppati e iper (si pensava) digitalizzati, tecnologici. L’ultima conseguenza, la più estrema e tragica, si collega direttamente alla tematica del cibo, con un costante aumento di casi di disordini alimentari fra i giovanissimi, che, isolati, spaventati dalle incertezze intorno e dentro a loro stessi, perdono di vista i loro punti di riferimento. La triste domanda che emerge, oltre a quella alla quale per sarcastica scelta non abbiamo risposto, è perché non aver impostato un sistema scolastico improntato su cooperazione dei ragazzi, educazione ed esempi corretti, spiegazioni dovute del senso civico di rispetto di forme e regolamentazioni per se stessi e per gli altri, o ancora, su spese in forniture di strumenti (non certo i famigerati banchi a rotelle), supporto educativo aggiuntivo, ripartizione delle classi a rotazione e delle ore più congrua con recuperi, offerta di buoni pasto da sfruttare, a casa, invece che in mensa (sovente esclusa nelle rette scolastiche) così da non far ricadere gran parte delle responsabilità degli adulti sui ragazzi? In fin dei conti, come spiegheremo un domani perché tanto poco è stato fatto per loro?


Veronica Fino

Fonti: Istat, Il Messaggero, flcgil.it

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